Lo scorso 29 ottobre è stato il secondo anniversario della tempesta Vaia che ha abbattuto molti alberi in montagna. Alcuni isolati, qua e là, in altre zone sono stati atterrati interi tratti di bosco. Enrico Tiziano Belli ha scritto queste riflessioni per il Camping Cadore per ricordare l’anniversario e per raccontare la sua esperienza nell’attraversare i boschi così profondamente trasformati.
Vi accompagneremo in questo racconto con 4 foto che pubblicheremo una volta a settimana nelle prossime 4 settimane nel sito del Camping Cadore.
Foto 1

Studiavo per il Corso di consulente di coppia e di famiglia e riflettevo sulle radici. Sulla parte sinistra dello schermo avevo il disegno di un albero, simbolo delle relazioni famigliari. Decisi di iniziare a scrivere una riflessione personale.
In un istante, inspiegabilmente, mi sono tornate alla mente tutte le immagini che, camminando nei boschi delle Dolomiti, mi avevano così colpito da volerle catturarle con la fotocamera.
Allora sono tornato al mio archivio fotografico con molta curiosità per rivedere quale nuova riflessione si aprisse.
Comincio da questa foto, scattata in un mattino d’estate.
Studiavo per il Corso di consulente di coppia e di famiglia e riflettevo sulle radici. Sulla parte sinistra dello schermo avevo il disegno di un albero, simbolo delle relazioni famigliari. Decisi di iniziare a scrivere una riflessione personale.
In un istante, inspiegabilmente, mi sono tornate alla mente tutte le immagini che, camminando nei boschi delle Dolomiti, mi avevano così colpito da volerle catturarle con la fotocamera.
Allora sono tornato al mio archivio fotografico con molta curiosità per rivedere quale nuova riflessione si aprisse.
Comincio da questa foto, scattata in un mattino d’estate.
La luce sguscia tra gli abeti e rende luminoso un angolo umido di sottobosco. È uno degli infiniti giochi di luce che nell’arco del giorno si producono tra gli alberi. Sono diversi nel bosco rado e nel bosco fitto, al mattino o nel pomeriggio.
Mi piace moltissimo scoprire, come se fossi a teatro, cosa il regista di ciascuna scena decida di illuminare, modificando la luce minuto per minuto. Come consumato attore, ora questo tronco balza in primo piano, ora quell’altro scompare nell’ombra.
Entro in un mondo di fiabe e mi risulta meravigliosamente inconcepibile il fatto che da tutte queste scene così ben contrastate non salti fuori uno scoiattolo a parlarmi, un cervo ad insegnarmi una scorciatoia, un capriolo a giocare a nascondino.
A volte ho l’impressione che dietro un’ombra si nasconda un elfo cattivo, su un raggio di luce scenda una fata dai grandi poteri.
Invece il bosco è così silenzioso. Meglio: parla tacendo. E non mi dispiace la quiete che mi circonda mentre cammino.
Nel reticolo di raggi che scendono dall’alto, emergono in controluce come comparse mute gli abeti con il loro tronco scuro. Al momento dello scatto nemmeno li notavo, troppo impegnato a cercare la giusta inquadratura per rappresentare la linea di luce tra il sole e la macchia di verde brillante del prato.
Ma ora li noto meglio: sono proprio loro a giocare al chiaroscuro.
Quante comparse ci sono nella mia giornata, mute come questi abeti, con le radici ben piantate per terra. Schermano la luce quando è troppo intensa, mi proteggono con la loro ombra, mi raffrescano il sentiero mentre cammino.
Non mi accorgerò di loro, forse, fino a che non mi verranno a mancare.
Foto 2

È una bellissima giornata di sole in Val Padeòn, tra Pomagagnon e Monte Cristallo. Quando arrivo davanti a questo abete sventrato non penso più ai giochi di luce nel bosco: mi sto godendo la tiepida mattina d’estate, lo scroscio del torrente, il placido sentiero che sale leggero tra i pini mughi.
Mi fermo qui, guardo e scatto.
Ci sono due piani: dietro, la carcassa del tronco, che, sventrata dal basso, sembra sia scoppiata dall’interno e si è aperta a raggiera, quasi per una bomba a mano.
Il cuore del tronco, in primo piano, è ora svelato allo sguardo, mentre prima stava nascosto al riparo della corteccia.
Il biancore del legno d’abete mi ricorda dei giochi che ho fabbricato in una falegnameria qualche anno fa. Erano le mie vacanze e passavo qualche pomeriggio a tagliare scarti di lavorazione per farne mattoncini, cubetti e parallelepipedi, con le macchine del falegname.
Poi con una lunga striscia di carta vetrata, che girava all’infinito grazie ad un motore elettrico, fresavo ogni millimetro per rendere la superficie liscia in modo che i bambini giocando non incontrassero delle schegge.
Avrebbero preso in mano i mattoncini di legno profumato, li avrebbero impilati, fatti cadere, rimessi in fila.
Che divertimento era, anche per me, maneggiare questi mattoncini lisci. Toccarli, rigirarli.
Forse, l’idea di fabbricare giochi per bambini era una scusa per poter giocare io, con il legno profumato, con la sega.
Ogni tanto provavo io stesso i mattoncini: li mettevo uno sopra l’altro, mi godevo il profumo. Nessuno avrebbe potuto dire che stavo giocando. Era lavoro!
Quanta nostalgia di quella falegnameria dove si lavorava in modo calmo e ordinato, senza fretta, senza ansia, in sicurezza. Ogni strumento era al suo posto e mi stupivo che il lavoro procedesse così regolarmente, un gesto quasi flemmatico dopo l’altro. Anche di questo modo di lavorare ho nostalgia.
A fine giornata tornavo a casa con la mia scatola di mattoncini, curati, lisciati, amati.
Ecco perché ora invece mi urta vedere così sventrato il tronco: che sono tutte quelle ruvidezze?
È stato certo uno strappo improvviso, non un taglio ragionato, non la carezza della levigatrice.
Si vedono però tutte le vie lungo le quali il tronco è cresciuto, verso l’alto, e in larghezza, di anello in anello.
In fondo è bello anche così, dietro la corteccia rossastra-grigio scuro, il legno bianco d’abete.
L’artigiano, di questo bianco improvviso, ne fa una tavola, uno sgabello. Forse, un mattoncino innocuo e liscio per giocare.
E porta in casa il profumo del bosco.
Foto 3

Quando giunsi in questo tratto di bosco, ignorando incoscientemente una indicazione “sentiero non percorribile” (ma non fate come me!), a quota 1.300 metri circa mi trovai di fronte a questo scempio.
La luce qui non è come nella prima foto, frastagliata, contrastata dalle linee verticali delle piante. Qui scende giù piatta e quadrata come una colata di neve.
Non ricordo cosa pensai prima di scattare la foto, ma certo mi colpì l’aspetto innaturale della scena. Ero passato altre volte zigzagando su per il sentiero ma ora dov’era? Non lo vedevo più e non l’ho più trovato.
Non solo è nudo il terreno lasciato scoperto, ma sono mezzi nudi i tronchi rimasti in piedi. Vedi? Da terra ad almeno metà tronco, quelli rimasti in piedi non hanno né rami né verdi aghi.
Perché? Troppo fitto era il bosco perché la luce potesse nutrire i rami più bassi e farli crescere. Questo è un aspetto paradossale della tempesta Vaia. Ci ha costretto a riguardare i nostri boschi, non solo con lo sgomento per la tragedia scampata (nessuna vittima tra le persone, per fortuna, tranne, se non ricordo male, una o due).
Ricorderai che allora le previsioni del tempo ci dissero di starcene a casa. Sì, proprio quei meteorologi che qualche volta deridiamo perché prevedono pioggia e poi c’è il sole, o con cui ci arrabbiamo perché scompigliano i piani del fine settimana.
Ricordo bene: dovevo fare un viaggio in quei giorni e fui sconsigliato. Paradossale quindi non solo scoprire che le previsioni prevedono, ma anche che la tempesta ha scoperchiato – oso! – il nostro abbandono di tanti territori di montagna.
Alcuni mi dissero allora: guarda, sono caduti gli alberi là, su quella curva. Che peccato! Però ora si vede il panorama. D’inverno il sole scalda la strada e non ghiaccia più. Non serve più gettare il sale. Ma lo dicevano a mezza bocca.
Paradossale, no? Da un evento negativo una conseguenza utile.
Torniamo ora alla foto.
Azzardo un pensiero senza pretesa che sia la verità né la migliore idea di gestione del patrimonio boschivo. Semplicemente vivo, osservo e mi faccio delle domande.
Ha senso pigiarsi tutti insieme in un piccolo spazio se poi non si respira? Ha senso dimenticarsi del bosco e lasciare gli alberi crescere fitti perché poi gareggino a chi raggiunge la luce, sempre più in alto?
E come mai oggi il virus impazza là dove la gente si pigia, nelle città, nei tram? Perdonatemi se inserisco così, in fondo, quasi a tradimento il tema del coronavirus.
Mi vengono in mente alcuni versi del poeta inglese Thomas S. Eliot:
…quando la Straniera dice: “Qual è il significato di questa città?”
Vi accalcate vicini perché vi amate l’un l’altro?
Cosa risponderete? “Ci accalchiamo per trarre denaro l’uni dall’altro?”
T. S. Eliot, Cori da La Rocca
Sarò fatto alla vecchia maniera, ma non riesco a vedere solo luce nel progresso tecnologico, nemmeno vedo solo nero nei disastri naturali.
Del resto, la tecnologia non ci ha salvato dal coronavirus.
Non credo però che i nostri boschi vadano lasciati allo stato brado. 70 anni fa i pascoli erano molto più estesi, e i nostri antenati erano senz’altro più rispettosi di noi dell’ambiente.
Vado verso la fine dichiarando guerra a un’idea troppo conservativa del bosco, quasi sacrale, intoccabile.
Il territorio non coincide con il bosco: è fatto di radure, linee di monti, cime, malghe, rifugi, campeggi, case, campanili. È fatto anche delle donne che ci abitano; degli uomini; dei nonni; dei bambini.
Ecco la prima proposta: molti nostri sentieri sembrano dei tunnel sempre uguali a se stessi. Iniziamo a ripensarli tenendo conto che il paesaggio è apertura, profondità, cielo, radure, luce. Questo ci è stato dato in dono. Certo, il bosco è un patrimonio, è un valore economico. Spesso è una proprietà collettiva indivisa, a volte proprietà privata. Tutto questo va rispettato. Tuttavia.
Concludo con un pensiero ancora più chiaro, anche se per forza sintetico: cominciamo ad immaginare, a progettare dove abbattere regolarmente piccoli tratti di bosco per aprire nuovi scorci panoramici nei nostri sentieri, sulle strade tra le nostre montagne. Costruiamo un reticolo di vie di accesso per i lavori boschivi, decidiamo che il nostro territorio è una risorsa che abbiamo ricevuto e che vogliamo riconsegnare migliore ai nostri figli.
Non è l’uomo per il bosco, ma il bosco per l’uomo.
Foto 4

In questa quarta foto vediamo un abete schiantato alla base, mentre le radici sono rimaste ben salde. I rami, che si sono protesi a raccogliere il vento, saranno rimasti sorpresi dalla forza che li ha trascinati e spinti verso terra. Loro non hanno potuto far altro che trascinare con sé anche il tronco, che si è spezzato nel suo punto più rigido.
Il legno mostra un colore tra il giallo ocra e un debole rosso mattone; la corteccia è grigia, quasi lucente; il tronco sembra volersi infilare di nuovo nel terreno e i rami, spogli, anche loro di un grigio freddo brillante, sono inondati dalla luce che scende ora piatta dall’alto.
Ci sono persone che spinte da disavventure della vita, cadono, e si spezzano solo allo stremo delle forze, ma non tradiscono le loro radici. Mi vengono anche in mente gli incidenti improvvisi che fanno scomparire dal nostro orizzonte persone anziane ma vitali, ben salde, sane come un pesce. Occorreva un evento tragico per abbatterle, come solo la tempesta ha potuto schiantare questo abete.
Queste 4 foto ospitate dal sito del Camping Cadore non sono immagini da cartolina: laghi cristallini, cieli azzurri, cime vertiginose.
Non si era mai vista a memoria d’uomo una tempesta così forte, come Vaia, e una volta nella nostra vita è arrivato questo vento che sembra aver messo in crisi l’immagini di sicurezza, stabilità e pace, che esprime il bosco.
Ho in archivio molte altre foto (il percorso proseguirà su vacanzedolomiti.com), e anche il nostro lettore potrà mandarci le sue, scattate nel suo cammino nei boschi: fino al completo ripristino, e ci vorrà ancora del tempo, ci aiuteranno a capire il valore di quello che c’è ricordando la breve, ma intensa, paura.
Non ho scelto immagini da cartolina perché sto riflettendo se ci stiamo prendendo cura del nostro territorio. Avremo i Mondiali e le Olimpiadi: ottima cosa. Avremo nuove strade, benissimo.
Ma la montagna è tutto qui? No, c’è una cultura del rapporto uomo-ambiente che vorrei trovasse la dignità di un lavoro vero.
Proprio mentre scrivo queste righe mi cade l’occhio su un articolo di un settimanale locale (l’Amico del Popolo, pubblicato a Belluno). Racconta di
…un libriccino telato, in cui Paolo Lorenzi, di Cortina, che lavorò a lungo per l’ASCoBA (azienda speciale per la gestione provvisoria dei beni agro-silvo-pastorali), registrava meticolosamente, tra il 1957 e il 1958, i resoconti quindicinali di servizio, le ore prestate, le zone in cui essi eseguivano controlli, diradamenti, martellate, rimboschimenti, riordino di strade forestali, tagli e trasporti di legname….
L’Amico del Popolo, 19/11/2020, p. 25
Ora torniamo alla nostra foto: quest’abete è ora ai nostri piedi. Mentre prima dovevamo guardarlo da sotto in su, ora se ne sta come un giocatore di basket disteso inerte su una barella.
Anche i campioni non sono irresistibili: possono fermarsi per un infortunio, oggi anche per un virus, e in un attimo ridiventano persone che hanno bisogno di cure.
Forse il bosco piange perché abbiamo guardato solo la montagna da cartolina, mentre c’è un territorio che rischia di spopolarsi e chiede di essere curato meglio.
D’altra parte l’idea di solidità che trasmette il bosco non deve farci concludere che la selva debba invadere indiscriminatamente tutti gli spazi.
La montagna è fatta anche dalle persone che ci abitano, dai prati, dai campanili, dal brio degli ospiti che la visitano, elettrizzati dalla bellezza delle montagne e dal fatto di essere in vacanza, cosa che non guasta affatto.
Io penso che la tempesta Vaia ci abbia portato un invito a cambiare il nostro sguardo sull’ambiente montano e sulle persone che ci abitano. E il tentativo di questo percorso visivo è quello di documentare con immagini e impastare di parole nuove, le mie, e, spero, anche le vostre, un’esperienza unica che nessuno aveva mai raccontato.
Enrico Tiziano Belli